Oggi sono qui per presentarvi un nuovo post di La
biblioteca dimenticata, rubrica fissa sul mio blog curata da
Davide Rigonat, il blogger
che gestisce La casa della
nebbia e l'autore
di La nebbia e altri racconti, ebook che
ho recensito pochi giorni fa.
L'elenco dei libri di cui si è occupato nei post precedenti è alla fine
di questo post.
Oggi ci parlerà di Centomila
gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi
e del dovere del ricordo.
Lo ringrazio e gli cedo subito la parola!
Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi
Cari
amici,
questa
volta voglio segnalarvi il capolavoro di Giulio
Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, libro arcinoto fino a qualche decennio fa ma che, almeno stando
alle mie conoscenze, pochi giovani hanno letto. Non a caso
questa volta ho scritto che voglio segnalarvi e non parlarvi di questo libro: non ho infatti intenzione di
dirvi gran che né dell’autore né del libro. Perché? Un po’ di pazienza e
vedrete!
Innanzitutto
due parole sull’autore: Giulio
Bedeschi (Arzignano, 31 gennaio 1915 – Verona, 29 dicembre 1990) è
stato un militare, medico, scrittore
e giornalista. Sottotenente medico durante la seconda guerra mondiale,
partecipò nel 1941 alla campagna
d’Albania sul fronte greco-albanese in forze alle truppe di fanteria.
In quest’occasione ebbe modo di toccare con mano per la prima volta il mito della Julia (la rinomata
Brigata Alpina) e di incontrare in prima persona alcuni suoi membri, prestando
loro le prime cure. Alla fine della guerra in terra greca gli fu proposto il trasferimento in forze proprio alla Julia;
lui accettò entusiasta e fu distaccato presso una batteria d’artiglieria. Di lì
a poco l’intera brigata fu spedita sul
fronte russo. Tornato vivo in patria, finita la guerra, Bedeschi
utilizzerà le annotazioni del diario di Batteria (a lui affidato) per scrivere
il suo capolavoro, Centomila gavette di ghiaccio, appunto. Questo libro, pubblicato da Mursia nel 1963
dopo numerosi rifiuti da parte di altri editori, diventò subito un grande
successo, vincendo il premio
Bancarella nel 1964 e vendendo a oggi oltre quattro milioni di copie in
oltre cento edizioni (per la cronaca, la mia è la cinquantaquattresima, quella del
1973). Sempre per Mursia, Bedeschi pubblicò poi altri romanzi incentrati per lo
più sulla Campagna di Russia, oltre a curare la serie di volumi C’ero
anch’io (di cui il testo forse più famoso è Nikolajevka: c’ero anch’io).
Dal
punto di vista letterario, c’è poco da dire. Bedeschi, per quanto scriva bene, non è uno scrittore professionista e si vede. Lo stile è spesso incostante e alterna, soprattutto all’inizio,
parti scritte in stile aulico con
citazioni e perifrasi classicheggianti a brani molto più semplici e diretti. Frequenti poi sono le ripetizioni e
altre piccole imperfezioni che, se durante le descrizioni dei momenti
più drammatici riescono talvolta a rafforzare il pathos del momento, in altri
appaiono decisamente ridondanti. C’è comunque da dire che anche la forma dello
scritto migliora man mano che il libro procede e che la narrazione si fa più
cruda e devastante. Anzi, si può ben dire che in tali momenti lo stile semplice che Bedeschi
usa ricalca bene lo spirito dei
protagonisti della sua storia e ce li fa apparire ancora più
(tragicamente) veri e vivi.
Della
trama non vi dirò nulla o quasi, anche perché l’argomento è abbastanza noto
(spero). Il libro, fortemente
autobiografico, racconta la campagna d’Albania prima e, in maniera più
estesa, quella di Russia dopo, il tutto visto attraverso gli occhi del sottotenente Italo Serri, suo alter ego.
Come l’autore stesso ci dice nella premessa, egli non ha fatto altro che
portare testimonianza di ciò che è accaduto al fronte e delle condizioni
disumane cui furono sottoposti i soldati italiani. Per rendere l’opera più generale,
l’autore ha modificato i nomi di quasi tutti i protagonisti, ma non per
questo si è staccato dalla realtà del vissuto. Ciò che si para davanti è
l’assurdità e l’atrocità della guerra, e di quella guerra in particolare. Se i
nostri soldati furono mandati in Grecia
male armati, privi di mezzi e di una seria organizzazione, ancora peggio
andò in Russia. Mentre i combattenti combattono contro i nemici, il fango, la
neve e il gelo dell’inverno russo, davanti ai nostri occhi passano in rassegna scene di coraggio, di eroismo, di pazzia;
scene degne dei più cruenti libri dell’orrore che si susseguono indossando le
vesti della tragica normalità. Uomini semplici che intrecciano le loro vite e che,
in grandissima parte, non faranno ritorno a casa. Insomma, cose che, come
brontola in dialetto un alpino ferito in Albania: «No le par vere, no le par vere. In Italia non se podarà contàr ‘sta
roba, se no i dirà che se conta bàle…». Tra l’altro, già dopo poche
edizioni furono aggiunte un numero variabile di fotografie (fino a 187 – 60 nella mia edizione) a
testimonianza delle incredibili condizioni descritte nel libro.
Questo
libro, potentissima opera di memoria della tragedia di Russia (oltre 100.000
morti), è, secondo me, uno di quelli
che ogni italiano dovrebbe leggere almeno una volta nella sua vita,e
non per spirito di patriottismo, ma, appunto, per il dovere del ricordo e per farsi un’idea reale di ciò
che è successo. Questo libro, sebbene non si proponesse fini polemici di sorta,
mostra tragicamente come spesso nella nostra recente storia (bellica in
particolar modo – basti pensare a come era stata condotta anche la Prima Guerra
Mondiale) la presunzione, la
faciloneria e l’arroganza abbiano guidato le scelte dei potenti d’Italia,
che senza adeguata preparazione si imbarcavano in imprese non solo più grandi
di loro, ma di cui non sanno quasi nulla. Per fortuna da allora non abbiamo più
dovuto affrontare alcuna guerra, ma è comunque un atteggiamento mentale che,
permettetemi, non mi sembra sia mai stato abbandonato dai nostri alti dirigenti, che alla fin fine hanno
sempre lasciato sulle spalle di chi sta sotto il compito di tenere in piedi la
baracca. Opinione personale, ovviamente.
Insomma,
un libro a cui è difficile restare
indifferenti e che vi consiglio di leggere.
Una nota pseudo-polemica per
chiudere:
nel 2006 lo storico Benito Gramola
ha portato alla luce una parte poco nota della vita di Bedeschi. Questi
infatti, ritornato vivo in patria, dopo l’8 settembre 1943 si iscrisse al Partito Fascista Repubblicano e, nell’ambito
della RSI, comandò la XXV Brigata Nera Arturo
Capanni di Forlì (non esattamente una compagnia di suore della carità).
Finita la guerra, Bedeschi fece
perdere le sue tracce per alcuni anni, per poi rispuntare come medico
reumatologo e scrittore. Negli anni seguenti egli evitò sempre di parlare di
questa parentesi del suo passato, sebbene negli ambienti dei reduci della RSI
la cosa fosse nota. Molti giornali (e in particolare l’Avvenire) negli ultimi anni hanno ripreso questa notizia, facendo
un discorso che potremmo banalizzare così: «Sì,
ha scritto un gran bel libro MA era Repubblichino». Adesso, a prescindere
dalle opinioni e dalle idee di ognuno, mi
spiegate cosa c’entra con il valore di un libro il fatto che questo a
28 anni (e dopo almeno 18 anni di indottrinamento e tre di guerra al fronte)
abbia aderito al partito fascista piuttosto che alla Resistenza? Tra l’altro, nel testo non vi è nulla di politico o
di dichiaratamente filo-fascista. Il
tamburo di latta è meno bello perché Günter Grass da giovane è stato filonazista?
Mah. Molto più saggi, per esempio, i Padri della Chiesa che, non potendo negare
la bellezza e la perfezione dello stile di Lucrezio e del suo De rerum natura, nonostante i suoi
contenuti fossero in varie parti considerati blasfemi ed eretici, risolsero il
problema ragionando esattamente all’opposto e sentenziando che «Sì, era affetto da pazzia e quindi spesso
delirava, MA ha scritto un capolavoro».
Io, purtroppo,
rientro nelle schiere di italiani che non hanno letto questo capolavoro, quindi
sono felice che Davide me lo abbia fatto scoprire almeno un po'. E spero sia
stato così anche per voi.
Lo ringrazio
ancora una volta per questo bell'articolo.
Di seguito i link
a tutti gli altri testi di cui ha parlato Davide:
- "Dafni e Cloe" di Longo Sofista: il più importante romanzo greco
- I libri di Andre Norton: tra fantasy e fantascienza
- "Il Papa" di Giorgio Saviane - Prima parte e Seconda parte
- "Palomar" di Italo Calvino: un viaggio verso la saggezza
- "La vera storia di Ah Q" di Lu Xun: un'ironica ed efficace denuncia sociale
- "Il Conte Lucio" di Giuseppe Marcotti: un romanzo storico tra ipocrisia e corruzione nel 1700
- "Jacques il fatalista" di Denis Diderot - Prima parte e Seconda parte
- "Il grande Meaulnes" di Alain-Fournier: dall'adolescenza all'età adulta
- "Dersu Uzala" di Arsen'ev: l'esploratore e l'uomo della taiga
- "Casa di bambola" di Henrik Ibsen: drammi sociali nel teatro
- "Il paradiso perduto" di John Milton: poema epico con Satana come eroe
Hanno parlato di questo articolo:
- "L'immoralista" di André Gide: un sordo e indistinto bisogno di vivere
- "La figlia del Reverendo" di George Orwell: cambiare se stessi e non cambiare niente
- "Inferno" di Johan August Strindberg: tra narrativa e autobiografia
- "Amore" di Inoue Yasushi: viaggio nel mondo interiore dei personaggi
- "La biblioteca dimenticata - Un anno e mezzo di recensioni sparse" di Davide Rigonat - ebook gratuito
- "La biblioteca dimenticata - Due anni di recensioni sparse" di Davide Rigonat - ebook gratuito
Non ho mai letto il libro, ma lo conoscevo perché il mio ex coinquilino (studente di medicina e quasi compaesano di Bedeschi) non perdeva occasione per citarlo e ci raccontava quegli episodi quasi come se li avesse vissuti lui.
RispondiEliminaNon sono un'appassionata di questo genere di romanzi, ma credo che ognuno dovrebbe leggere storie di guerra, almeno per rendersi conto di com'era veramente la vita in quegli anni. E per rendersi conto della fortuna che abbiamo a vivere in un'epoca di pace.
Martedì ho letto in pubblico un brano su un reduce... è stato emozionante vedere la reazione del pubblico, soprattutto di alcune persone che avevano avuto dei parenti dispersi in guerra o reduci. Concordo sulla necessità di fare memoria, pur non amando, come te, il genere letterario in sé.
EliminaL'ho letto secoli orsono per la scuola.
RispondiEliminaRitengo che la cosa veramete importante di questo libro non sia lo stile con cui è scritto. Non era scrittore professionista dice chiaramente Davide. Quello che conta è la Storia, quella con a S maiuscola, fatta di vittime non solo della guerra ma anche della disperazione, della disorganizzazione, del potere.
Non voglio far politica, non mi interessa quello. Dico solo che quando gli esseri umanni non sono carne da macello come invece è stato nella realtà e come risulta bene da questo libro.
Non sapevo che fosse diventato repubblichino, però....
La Storia con la S maiuscola, raccontata da chi l'ha vissuta, è decisamente il migliore documento storico.
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