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venerdì 9 ottobre 2015

"Le diaboliche" di Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly: donne davvero crudeli?

Oggi sono qui per presentarvi un nuovo post di La biblioteca dimenticata, rubrica fissa sul mio blog curata da Davide Rigonat, il blogger che gestisce La casa della nebbia e l'autore di La nebbia e altri racconti.


Oggi ci parlerà di Le diaboliche di Jules-Amédée Barbey d'Aurevilly.

Come sempre lo ringrazio e gli lascio la parola così che possa incuriosirvi in merito a questo libro dimenticato!


Le diaboliche di Jules-Amédée Barbey d'Aurevilly

Cari amici,
eccoci arrivati a un nuovo appuntamento con La Biblioteca Dimenticata, il primo dopo lo special dedicato alla presentazione dell’e-book in cui ho raccolto le prime diciotto puntate della rubrica (e ne approfitto per ringraziare i circa 40 coraggiosi che se lo sono scaricato da Smashwords, Amazon, iTunes & C.). Questa volta vi parlerò de Le Diaboliche di Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly.


L'autore
Come al solito cominciamo con qualche parola sull’autore. Nato a Saint-Sauveur-le-Vicomte il 2 novembre 1808 da una famiglia di antica origine ma di recente nobiltà, Jules-Amédée Barbey trascorse gran parte della sua infanzia nella regione del Cotentin, dove conobbe i reduci della Chouannerie e molti fedeli ai Borboni fuggiti dalla Francia al tempo di Napoleone. Crebbe così in un ambiente conservatore e monarchico, nostalgico del mondo dell’antica aristocrazia e avverso al progresso sociale in atto: la Rivoluzione aveva infatti colpito duramente anche le famiglie dei genitori. A 18 anni si trasferisce a Parigi, dove nel 1829 consegue il baccalaureato, dopo di che si reca a Caen per studiare legge. Lì, assieme al libraio Trébutin del quale è diventato amico, fonda una rivista sulla quale comparirà il suo primo racconto. In questo periodo incontra anche Joseph de Maistre, sotto la cui influenza abbraccia ideali liberali, repubblicani e democratici: questa svolta ha però vita breve e Barbey, disgustato dal progresso e dai valori borghesi del nuovo secolo, aderisce ad un ideologia monarchica, assolutistica e assolutamente intransigente. Tornato a Parigi, Barbey conduce una vita da perfetto dandy (movimento di cui diverrà uno dei teorici grazie a un suo saggio sul dandismo e su Brummel pubblicato nel 1945), con tanto di abuso di alcol e di assenzio,  mantenendosi con una rendita lasciatagli in eredità da suo zio Jean-François Barbey d'Aurevilly (dal quale mutuerà, passata la febbre democratica, il d'Aurevilly).
Dal 1840 comincia a frequentare il salotto della baronessa Amaury de Maistre, cattolica e legittimista e, nel 1846, si converte al Cattolicesimo Romano, di cui diverrà fiero difensore. A causa del deteriorarsi della sua situazione economica, Barbey d’Aurevilly riprenderà la collaborazione con numerosi fogli e giornali, dedicandosi soprattutto alla critica letteraria, spesso condita di ironia, sarcasmo, grandi intuizioni e da una palese intransigenza religiosa e ideologica. Se da una lato egli contribuisce alla difesa dei Fiori del Male di Baudelaire (che non nascose di apprezzare le sue opere), alla scoperta di Stendhal, alla rivalutazione di Balzac e, almeno riguardo a Madame Bovary, di Flaubert, dall’altro non si fa scrupolo a criticare Hugo o a stroncare Zola, Madame de Staël e molti altri. Non per niente si dichiarò entusiasta del romanticismo e fustigatore del realismo e dell’illuminismo. Scrisse numerosi racconti e romanzi, in cui i temi della cristianità e del peccato fanno la parte del leone: la sua dichiarata ed esplicita descrizione del peccato e dello scandalo, che lui giustificava come un tentativo di spaventare i suoi lettori e rafforzarli nella virtù, gli fruttarono anche delle aperte accuse di immoralità. Trai suoi lavori possiamo ricordare L'ensorcelée (La donna stregata, 1854), Le chevalier des Touches (Il cavaliere di Touches, 1864), Un prêtre marié (Un prete sposato, 1865), Les Diaboliques (Le diaboliche, 1874), Une histoire sans nom (Una storia senza nome, 1883) e Ce qui ne meurt pas (Ciò che non muore, 1884). Morirà a Parigi il 23 aprile 1889.


Il libro
Passiamo adesso alle nostre care Diaboliche. Questo libro è in realtà una raccolta di sei racconti, ognuno avente come protagonista una donna (appunto) diabolica. Come l’autore stesso ci spiega nell’introduzione, il suo intento nel mostrarci questi sei ritratti e nel narrarci queste sei storie (che lui afferma essere prese pari-pari dalla realtà) è quello di comunicare al lettore l’orrore dei loro comportamenti, così da scoraggiare qualsiasi altro dal metterli in pratica. Vi dico subito però che, tranne forse in un passaggio della penultima storia, l’impressione è che Barbey si diverta e ami questi suoi personaggi votati al peccato, ma… di questo parleremo tra un po’. È interessante notare come l’autore ci spieghi che questa non sia che la prima parte di un progetto più ampio: a queste Diaboliche avrebbero dovuto seguire altrettanti Celesti, a patto che avesse trovato un azzurro abbastanza puro per scrivere le loro storie. Evidentemente non lo trovò.

Le storie, come dicevo, sono sei:
  • La tenda cremisi,
  • Il più dell’amore di Don Giovanni,
  • La felicità nel delitto,
  • Il rovescio delle carte di una partita di whist,
  • A un pranzo fra atei,
  • La vendetta di una donna.

Ho a lungo pensato se svelarvi o meno la trama dei racconti e, alla fine, ho deciso che non ve la racconterò. Il punto, infatti, secondo me non sta tanto in quello che ci racconta, ma in come ce lo racconta e nell’intenzione generale dell’opera. In questi racconti vi sono molti elementi ricorrenti nell’opera di d’Aurevilly. Tutti i racconti si svolgono a Parigi o a V... città nella bassa Normandia (dove lui era nato); tutti si muovono poi nell’ambiente dell’aristocrazia, un’aristocrazia spesso nostalgica e persa nel passato, stretta nella morsa della noia, dell’immobilità, del pettegolezzo e del vizio; i suoi protagonisti maschili sono sempre dei dandy inveterati, spesso ormai non più giovanissimi, atei e con un passato di dedizione al peccato e alla lussuria. Nel descriverci questi elementi, d’Aurevilly ci vuole mostrare uno spaccato di quella società, riportandocene i pensieri e gli stereotipi culturali: ecco allora come la donna, oggetto di corteggiamento e conquista da parte dei dandy di turno, non sia in generale ritenuta capace che di passione, viltà e vergogna, da cui l’interesse per le protagoniste che spesso escono da questo schema semplicistico, peraltro pacificamente accettato e quasi condiviso dal resto della buona società femminile dedita più che altro al mantenimento della facciata e all'allontanamento delle malelingue. Le protagoniste dei racconti sono tutte, in vario modo, diaboliche, anche se spesso solo da un punto di vista maschile: se alcune di loro si rendono responsabili di veri e propri delitti (in alcuni casi anche assai macabri, a dire il vero, e magari in complicità con un loro amante), altre hanno solo dei comportamenti che portano l’amante o l’ammiratore al tormento  alla disperazione (più che altro perché il loro comportamento esce dagli schemi e loro non sanno come comportarsi). Da notare che, quasi sempre, i protagonisti e/o i loro amici e congiunti si sono resi in passato colpevoli di episodi ben più efferati e crudeli, senza che questo li faccia giudicare in maniera particolarmente severa: del tipo Sì, è grave, ma che vuoi…


Lo stile di d’Aurevilly è, a mio avviso, piacevole e diretto: oltre a scrivere bene, egli è maestro nell’uso dell’ironia e del sarcasmo, armi a cui fa grandemente ricorso per mettere in ridicolo le abitudini moderne rispetto agli usi del bel tempo andato dell’aristocrazia (tema a lui molto caro) e per esprimere le sue idee sulla Rivoluzione, su Napoleone, sulla Rivoluzione di Luglio, ecc. Pur dichiarandosi poi fervente cristiano, tutti i racconti sono pervasi da un grande senso di voluttuosità e, in un certo senso, di erotismo, vizi che l’autore ci presenta senza veli o mistificazione nella loro banale realtà. Numerose sono anche le stoccate che i vari protagonisti riservano alla Chiesa in generale, in un turbinio di beoni, donnaioli, atei, preti spretati e monaci fuggiti dal convento: la percezione che questi racconti siano stati scritti da un difensore dei valori della cristianità non è certo immediata (anzi, come ho già detto si ha la netta impressione che in fondo l’autore, anche se deluso della vita e della società che lo circonda, si diverta nel rappresentarla così crudamente). Dal punto di vista del fraseggio, in vari punti l’autore si lancia in lunghe descrizioni e, in alcuni casi, per far arrivare al dunque il narratore (tutti racconti sono in realtà narrati da uno dei personaggi a qualcun altro) ci mette un bel po’, almeno secondo i canoni di oggi: bisogna però considerare il periodo in cui furono scritti e considerare il gusto dell’epoca. Non è che in Zola e Balzac non vi siano disanime del carattere di qualche personaggio o descrizioni che non superino in lunghezza quelle del buon Barbey: a me, comunque, non hanno dato alcun fastidio, anche perché (secondo me) sono scritte con sapienza e maestria.

Per finire, non posso che consigliarvi questo libro di un autore forse non molto conosciuto ma che ha avuto molti illustri ammiratori.

Wow! Un libro con donne diaboliche? Come non può attirare una Luciferina? Ahahah!

Vi ricordo che tutti i post precedenti di questa rubrica sono finiti in un bellissimo ebook che potete scaricare gratuitamente da varie piattaforme (al link maggiori informazioni).
Oppure li potete trovare sul blog, cliccando sulla rubrica La biblioteca dimenticata - rubrica di Davide Rigonat.

Ancora un grande grazie a Davide per i suoi bellissimi contributi! Alla prossima!


Note: La foto usata come sfondo del banner è da attribuire a Luciano Caputo (vedi CC nel link).




Hanno parlato di questo articolo: 

2 commenti:

  1. Ciao, Romina, come va? Ho letto il libro. Secondo me è narrato in modo magistrale. Un caro saluto.

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    1. Scusa, mi ero persa il tuo commento! Ti mando anch'io un carissimo saluto!

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