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lunedì 8 marzo 2021

"Cosa vuol dire essere donna in questo ultimo anno?" - guest post di Luana Nava


Da quanti milioni di anni non esce un guest post su questo blog? Da troppo tempo!

Quest’anno pensavo di non scrivere niente per la festa della donna, anche perché per me oggi è più che altro l’anniversario dell’inizio del primo lockdown e non sono molto in vena di scrivere. Aggiungiamoci pure che ho da poco preso una decisione molto difficile (ve ne parlerò) e che sto aspettando una lettera che potrebbe cambiare radicalmente la mia vita… insomma, un periodo davvero molto tranquillo. 

Mi corre in soccorso Luana Nava, mia storica collaboratrice su un altro progetto (non sul web) che ha accettato il mio invito a scrivere un guest post per il blog. Non c’era tema né scadenza, ma… è arrivato oggi, quindi, che faccio? Ma ve lo regalo, ovviamente, come lei l’ha regalato a me. Con un mio grande grazie!


Cosa vuol dire essere donna in questo ultimo anno? 

  • Vuol dire vedersi chiudere tutto il 7 marzo e nessuno ti fa gli auguri perché tutti sono a parlare di lockdown e di coronavirus e un po’ ti senti in colpa per questo pensiero egoista perché «ci sono donne che stanno peggio di te, in fondo».
  • Vuol dire passare 3 mesi chiusa in casa cercando ogni giorno un modo per passare la giornata, dal pulire casa da cima a fondo a fare un aperitivo via Zoom con le amiche, al darsi agli work out del tuo personal trainer in palestra.
  • Vuol dire trovarsi tutto in un momento a condividere le proprie ore di libertà con figli o compagno/marito forzatamente e non avere i propri spazi, perché diciamocelo: avere anche solo un’ora di riposo senza uomini o pargoli per casa a volte può essere rigenerante. 
  • Vuol dire avere la possibilità di lavorare senza dover indossare tacchi e senza truccarsi perché tanto sei a casa in smartworking e puoi anche startene in pigiama
  • Vuol dire appoggiarsi ai balconi e cantare a squarciagola canzoni piene di speranza e fare teloni con arcobaleni e hashtag #andratuttobene.
  • Vuol dire spaventarsi davanti ai picchi raggiunti e tirare un sospiro di sollievo davanti ai numeri che calano finalmente e gioire quando finalmente si allentano le redini. 
  • Vuol dire alternare malumori a giornate piene di brio, ma ultimamente sono più i malumori che le gioie della vita.
  • Vuol dire avere paura che un giorno la tua azienda ti chiami e ti dica: «Mi dispiace ma non raggiungiamo il budget, non riusciamo ad appianare i costi». E tu sai che quel costo sei tu, nonostante tu non prenda come un tuo collega uomo e ogni giorno tu ti sia data da fare. 
  • Vuol dire convivere con dei figli a intermittenza che un giorno vanno a scuola e il giorno dopo la chiudono, senza che chi sta in alto si ponga la domanda: «Ma come faranno le madri/nonne/sorelle in smartworking, se dovranno pure occuparsi dei figli in DAD?». E quindi sotto con i salti mortali tra una call di lavoro ed un «mammaaaaa ho fameeee». 
  • Vuol dire consolare amiche, madri e figlie che hanno crolli psicologici dovuti ai continui cambi di colore, manco fossero dei semafori, perché risentono di quella libertà di poter uscire senza la paura del contagio negata ormai da un anno. 
  • Vuol dire avere la consapevolezza che quell’uomo aguzzino da cui vuoi scappare e vuoi denunciare ma non puoi fare perché sei costretta a rimanere chiusa in casa con lui prima o poi ti tirerà l’ennesimo schiaffo, l’ennesimo pugno, calcio e tu potresti rimanerci secca e nessuno parlerà di te perché saranno tutti troppi impegnati a parlare della pandemia. 
  • Vuol dire vedere la propria attività, in cui hai investito tempo e denaro, chiusa da un giorno all’altro e non sai se stavolta potrai farcela con i sussidi e i tuoi risparmi e ti fa rabbia perché magari tanti imprenditori dell’altro sesso ti hanno screditata perché «sei donna, non puoi fare un lavoro maschile» con un accenno di invidia perché tu sei più brava e capace di loro. 
  • Vuol dire stare lontana da chi si ama, divisi da province, comuni, regioni, e soffrire in silenzio perché qualsiasi cosa tu provi a inventarti per ricongiungersi non basta mai e ti senti privata del diritto di amare, ti senti di fare parte di coppia di serie b, ti senti di nuovo non tutelata. 
  • Vuol dire aver scelto un mestiere che ti ha catapultata in trincea nel giro di due settimane, aver preso per prima tu la decisione di fare il tampone a quel ragazzo di Codogno che aveva quei sintomi così strani per essere influenza, stare a stretto contatto con le terapie intensive così piene senza magari i dispositivi necessari per proteggere te, venire riconsiderata nell’arco di un anno eroina e poi bugiarda, infame. Fare il vaccino per prima perché hai scelto di diventare personale sanitario e sentirti augurare la morte e augurare magari a questi fenomeni di provare loro a stare nei reparti covid, vedere morire padri, madri, nonni e anche figli, nipoti, sotto un casco da soli e di avere la forza comunque di continuare a essere lì perché, in fondo, «stare in trincea» non è una vocazione per tutti.
  • Vuol dire sopportare il dolore di non aver potuto stringere la mano al proprio padre, marito, fratello mentre spiravano in un freddo e sinistro reparto di terapia intensiva con addosso un casco e rassicurarlo, non poterlo vedere più perché non sai in quale camion militare che è passato nel centro città è la sua bara e ritrovartelo in un’urna sotto forma di cenere, mentre in cenere va anche il tuo cuore quel momento dopo essere arso alla chiamata dell’ospedale: «Mi dispiace, ma non c'è l’ha fatta». 

Essere donna durante quest’anno ha avuto molte sfaccettature, un po’ ironiche e un po’ drammatiche, il più delle volte il secondo caso. Essere donna durante quest’anno è stata la prova più dura per tutte, è stato ridere di gioia e piangere dalla disperazione. É stato sentirsi sull’orlo della disperazione. É stato proseguire la salita e ritornare a lottare soprattutto per te stessa e per tutte le altre che insieme a te sollevano la testa verso un futuro migliore in ogni senso, con o senza Covid




Ringrazio Luana per questa sua riflessione. Ci tengo a dire che è declinata al femminile, perché oggi è la festa della donna, ma che quasi tutti i punti si possono tranquillamente leggere anche al maschile. Giusto per evitare polemiche sterili. 
Un caro augurio a tutte le donne e, come ho letto su Facebook, in un post di non ricordo chi: «Meno fiori e più uomini per bene» a tutte!




Vi ricordo inoltre che se volete pubblicare un articolo sul mio blog o volete un mio post per il vostro, potete trovare informazioni alla mia pagina dedicata al fenomeno del guest post dove c’è anche l’elenco sempre aggiornato dei miei post pubblicati in altri blog e degli ospiti che sono passati di qui!



Immagine iniziale di Engin Akyurt su Pixabay

2 commenti:

  1. io spero che possa arrivare il giorno in cui cose come una donna che lavora come un uomo possa anche prendere lo stesso stipendio. Vorrà dire che finalmente siaremo arrivati a vivere in una società davvero paritaria.

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    1. La strada è ancora lunga ma... lo spero anche io. Nel mio piccolo insegno a mia figlia che può essere e diventare tutto ciò che vuole. Una piccola goccia per un futuro migliore. Speriamo che il futuro in cui vivrà sarà migliore per davvero!

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