Vittorini: la responsabilità di
uno scrittore.
Elio Vittorini non è mai stato tra i miei autori
preferiti o tra le mie fonti principali di ispirazione, non tanto per sua colpa
o per qualcosa che io non amassi nel suo stile o nelle sue trame, semplicemente
lo conoscevo poco. Dai ricordi delle scuole superiori egli era un insieme di
qualche data e un piccolo brano di Uomini
e no letto su un’antologia, un po’ poco per rendere questo autore
importante nella mia formazione. Ultimamente ho avuto modo di rimediare: ho
letto diversi libri di questo autore e saggi su di lui, quindi ho potuto
apprezzarne svariati punti di forza e la capacità di innovare, attraverso l’uso
dell’immagine e di una scrittura particolare, la letteratura del Novecento.
Oggi però non ho intenzione di perdermi in lunghi discorsi, anche perché dopo
questi mesi di studio di Vittorini rischierei di farvi una lezione infinita. Ho
scelto dunque un tema ristretto, ma che spero possa colpire la vostra
sensibilità di scrittori e/o lettori: la responsabilità dello scrittore.
Vittorini scrive in un periodo storico che lo porta
logicamente a occuparsi della sua società e dell’angoscia del suo tempo. Egli
passa da una cieca fiducia nella forza rivoluzionaria del fascismo del suo
romanzo Il garofano rosso, a fasi più polemiche e antifasciste
come quelle di Conversazione in Sicilia, per poi arrivare a Uomini
e no, il romanzo della resistenza e della lotta partigiana a cui
egli stesso ha preso parte. Poi nel 1948 quando per la prima volta pubblica in
volume Il garofano rosso, il suo
romanzo di gioventù che ha incontrato non pochi problemi da parte della
censura, lo accompagna con una prefazione autocritica in cui tra i tantissimi
temi emerge anche quello della responsabilità di uno scrittore di cui ci
occuperemo oggi.
Scrivere è azione
Mentre Vittorini spiega le complesse ragioni che hanno
impedito l’uscita de Il garofano rosso
fino al 1948 afferma:
Preferirei, tuttavia, aver già pubblicato il libro a suo tempo, quando in esso credevo; e aver scontato allora, al coperto della fede che avevo in esso, ognuno dei debiti di responsabilità per i quali un libro, nei rapporti con il pubblico, è un’azione. [Testo tratto da Il garofano rosso – prefazione del 1948 edito da Mondadori].
Un libro per Vittorini è un’azione, quindi non è solo parola
scritta, è parola che agisce e che quindi comporta una responsabilità
fondamentale dello scrittore nei confronti del pubblico che legge. Questo è un
principio chiave in tutta l’opera di questo scrittore che nello scrivere
insegue un suo bisogno interiore, ma non perde mai di vista le responsabilità
che ha nei confronti del suo pubblico. Una delle responsabilità maggiori per
lui è riuscire a mettersi in grado di parlare a nome di tutti e questo è uno
dei motivi che lo porteranno a criticare la sua stessa opera giovanile, perché
troppo centrata sul suo protagonista, Alessio Mainardi, e dunque incapace di
quella generalità a cui lui ambiva.
Scrivere e
pubblicare tra orgoglio e umiltà
In un altro passo della prefazione egli dice anche che
è:
Umiltà pubblicare dopo che si è avuto l’orgoglio di scrivere. [Testo tratto da Il garofano rosso – prefazione del 1948 edito da Mondadori]
È una cosa strana ai miei occhi, perché vedo molto più
orgoglio nel pubblicare (nel voler far sì che la propria creatura diventi in qualche modo immortale) piuttosto che nello
scrivere (attività intima e solitaria). Invece per Vittorini è il contrario. Scrivere
per lui è un moto d’orgoglio, perché implica la superbia di credere di avere
qualcosa da dire. Pubblicare invece può gratificare, ma è un atto di umiltà
perché espone al giudizio degli altri.
Il viaggio a
Milano: la svolta
Nella concezione di responsabilità di uno scrittore per
Vittorini segna una svolta il viaggio a Milano del 1933, importante per lui a
livello formativo, lavorativo e sentimentale. L’autore torna trasformato e
smette di guardare all’indietro in una sorta di memorialismo. Se si guarda
indietro o attorno da quel momento è solo per dire cose del presente che solo
riferite al passato possono passare indenni sotto il vaglio della censura. Scrivere
è un imperativo ineludibile (deve scrivere per vocazione) ma inizia a capire
che c’è anche una responsabilità di cui sta prendendo coscienza: il libro, come
azione di cui lo scrittore porta la responsabilità piena nei confronti del suo
pubblico, è una responsabilità che va
oltre il piano estetico del gusto e della letteratura ed è responsabilità di
ordine etico, civile e politico.
Un solo libro,
una sola verità
Vittorini nella sua prefazione a Il garofano rosso scrive:
Io non ho mai aspirato “ai” libri; aspiro “al” libro, scrivo perché credo in “una” verità da dire; e se torno a scrivere non è perché mi accorga di “altre” verità che si possono aggiungere, e dire “in più”, dire “inoltre”, ma qualcosa che continua a mutare nella verità mi sembra esigere che non si smetta mai di ricominciare a dirla. [Testo tratto da Il garofano rosso – prefazione del 1948 edito da Mondadori]
Ogni scrittore per quanto scrive è sempre lo stesso,
quindi crede in una sola verità e non scrive per inseguirne molte. Vittorini
crede a una sola verità ma l’impegno a scriverla nasce dal fatto che essa è in
continuo movimento e lui come scrittore deve rincorrere quel senso e quel
movimento che si agita in quell’unica verità in cui crede.
Uno non scrive per arricchire il mondo della cognizione di qualche “altra” cosa. Fosse così, quale condizione sarebbe più felice della nostra? Noi potremmo anche non scrivere. Saremmo “liberi”. Potremmo scrivere o non scrivere, e dare o non dare la nostra parola. Invece non possiamo che scriver bene o scriver male. Possiamo anche mentire. Ma non possiamo scegliere tra scrivere e non scrivere C’è su di noi un impegno che non ce lo consente. Ci viene da tutti gli uomini, impegno che rende terribile la nostra vocazione, ed è questo che noi si esercita con ogni libro, con ogni scritto, ripeterla ogni giorno non in qualche altra sua consistenza ma in qualche altro suo aspetto che la varia, che la rinnova, e nel ripeterla darla ogni volta (o tentare di darla) tutta intera, ogni volta (per il minimo che ne cambia) in una nuova figura, come se non potesse esservi al mondo che un libro solo. Altro che arricchire il mondo! C’è una questione di vita o morte nel giro del nostro mestiere. Si tratta di non lasciare che la verità appaia morta. Essa è presente tra noi per la continuità delle nostre correzioni, delle nostre aggiunte, delle nostre ripetizioni, e il giorno in cui ci si fermasse, anche solo il tempo di una generazione, addio: non la poesia o la filosofia sarebbero morte, ma la verità stessa non avrebbe più posto nella nostra vita. [Testo tratto da Il garofano rosso – prefazione del 1948 edito da Mondadori]
Ogni scrittore dunque ha il dovere di parlare della
verità in cui crede, anche a costo di sbagliare, deve raccontarne il mutamento
e non fermarsi, altrimenti ogni cosa andrebbe perduta. Certo, forse noi
scrittori moderni non siamo chiamati a parlare di temi così vivi e tangibili
nella nostra società come succedeva nel periodo della resistenza, ma tutti noi
scriviamo animati da qualche sentimento, da una nostra concezione di verità e
forse possiamo imparare molto da queste parole di Vittorini.
Conclusioni
Siamo responsabili di ciò che scriviamo? Se sì, fino a
che punto? Tocca a noi scrittori tenere vive le verità (o la verità, come direbbe Vittorini)? Che cosa ne pensate?
Infine, per affrontare il tema della responsabilità di
uno scrittore in ottiche diverse da quella vittoriniana vi consiglio di leggere
il post di Salomon Xeno dal titolo Scrittura e responsabilità.
Lo scrittore vero è responsabile, certo, ma non può tener conto del pubblico, altrimenti non sarebbe uno scrittore ma un autore che collabora con un editore (mestiere di grande rispetto, ovviamente, se fatto bene). Se tenesse presente il pubblico nel momento della "creazione" sarebbe già limitato ma, come dice Vittorini, nell'atto della scrittura c'è orgoglio; penso ci sia consapevolezza di riuscire a trasportare qualcosa nella pagina, lavorarci fino ad arrivare alla parola fine, parola fine che dimostra che hai fatto un percorso completo con le tue sole forze. Questa consapevolezza è orgoglio. Dopo arriva il pubblico (forse) e lì lo scrittore ascolta le critiche, capisce che a qualcuno è arrivato un millesimo di quello che ha scritto, ad altri è arrivato molto di più: ognuno nel tuo libro può vedere ciò che crede e, accettare questo e il confronto, credo sia umiltà.
RispondiEliminaHai ragione: quanto si scrive non lo si fa per il pubblico, lo si fa per se stessi, per la gioia che si prova scrivendo. In seguito poi bisogna occuparsi del fatto che il nostro messaggio arrivi a destinazione. Probabilmente è in questo senso che Vittorini parlava di orgoglio, non ci avevo pensato. La responsabilità di uno scrittore poi va oltre quando cerca di portare dei messaggi importanti e forti. Grazie per il commento chiarificatore!
EliminaIovcredo invece che un pizzico di responsabilitá ci debba essere da parte dello scrittore anche facendo salvo, come per ogni altro essere umano, del diritto a cambiare idea. Ma un minimo di responsabilitá verso i lettori debba esserci.
RispondiEliminaDel resto anche Vittorini nella sua vita ha cambiato idea diverse volte (soprattutto a livello politico). Cambiare opinione non è certo un crimine, la responsabilità non sta sempre nella coerenza. Grazie per il commento!
EliminaCambiare opinione è umano. La coerenza è sopravvalutata, oggigiorno. Anche Sartre ha un punto di svolta, in cui modifica il proprio impianto filosofico: la guerra. Forse anche per questo, conclude l'intervento da cui ho preso spunto nel modo seguente:
RispondiElimina"È questa la responsabilità dello scrittore: una responsabilità non eterna, ma attuale."
La tua citazione è perfetta! Anche Vittorini l'avrebbe apprezzata. Grazie!
Eliminadomanda interessante.
RispondiEliminaPasolini la pensava allo stesso modo, per lui essere uno scrittore significava assumersi il compito di vedere quello che la gente comune non vede e raccontarlo nero su bianco.
Non lo so, a me sembra un po' eccessiva questa cosa. È pur vero che oggi le persone hanno a disposizione molto di più dei libri per informarsi e farsi un'opinione, quindo la presunta responsabilità degli scrittori è molto minore, se ancora c'è.
Secondo te dunque la responsabilità dello scrittore è diminuita perché oggi ci sono più fonti di informazione? Può essere... a volte io però ho la sensazione che i mass media rendano tutto ancora più difficile. Pascoli diceva che dentro il poeta c'è un fanciullino che sa vedere le cose come un bambino, forse anche questo permette alla letteratura di insegnare ancora qualcosa e insegnare significa "lasciare un segno" e dunque implica una certa responsabilità. Grazie per il commento e la riflessione attualizzata. A presto!
EliminaPer quanto sia banale affermarlo, credo si debba distinguere tra scrittore-giornalista e scrittore d'altro tipo.
RispondiEliminaCredo che ogni divulgatore, saggista o cronista pensi in primis ai lettori, e non a se stesso, quando scrive. Ed è giusto che sia così, perché in quel caso la cosa essenziale è trasmettere un'informazione, un messaggio.
Può essere ben diverso l'approccio di chi scrive altro (romanzi, racconti etc.).
Non credo che nessuno scriva un articolo di giornale senza pensare a farlo leggere, mentre si può benissimo scrivere una poesia senza aver in mente un lettore.
In ogni caso quando si decide di diffondere i propri scritti si diventa assolutamente responsabili dell'effetto che avranno, come lo si è facendo un discorso o compiendo quasi qualunque altra azione (purché in pubblico, è chiaro). Se curarsene o meno è una libera scelta.
Comunque non conoscevo Vittorini, ma devo dire che quei pochi estratti e, più in generale il tuo post non mi hanno invogliato a scoprire la sua letteratura.
Sicuramente ci sono vari tipi di scrittori e di impegno, è chiaro che uno scrittore che parla di fatti realmente accaduti è diverso da uno che parla di un mondo magico e misterioso oppure distante nel tempo, ma non sempre (a volte si parla di cose lontane per parlare di quelle vicine di cui non si può dire nulla, vedi Manzoni).
EliminaSicuramente si può scrivere qualcosa senza l'ambizione di farla leggere, ma, come dici tu, se si fa questa scelta, subentra la responsabilità.
Mi dispiace che questo post ti abbia portato ad allontanarti da Vittorini prima ancora di conoscerlo... non devo avergli fatto una bella pubblicità, comunque a sua (e a mia) discolpa, le citazioni vengono da una prefazione (una sorta di saggio), i libri sono molto diversi. Grazie di tutto (mail compresa)!
Credo che siamo responsabili di ciò che scriviamo nella misura in cui lo siamo(o dovremmo esserlo)di ciò che diciamo,facciamo o pensiamo.Teoricamente, credo che la coerenza interna delle nostre idee ci dovrebbe spingere,sempre, indipendentemente dal pubblico, ad agire secondo i valori che ci suggerisce. Semmai, il problema è capire che c'è una differenza tra scrittore e narratore ( giornalista o chi narra eventi senza), per il semplice fatto che lo scrittore racconta gli stessi fatti del narratore, ma con le parole di uno scrittore, toccando corde che l'altro non conosce. Crea emozioni su qualcosa. E ogni volta che crea emozioni ha una responsabilità verso di esse e verso chi le prova. Se poi diventa, in qualche modo, un opinion leader,cioè qualcuno in grado di incidere sulle opinioni altrui,allora la responsabilità dovrebbe diventare ancora più profonda.
RispondiEliminaMi è piaciuta molto la distinzione che hai fatto tra giornalista e scrittore. Io scrivo articoli di giornale e mi piacciono quelli "lunghi" in cui posso anche cercare di trasmettere emozioni e non solo i meri fatti. Tuttavia credo che ciò dipenda dalla mia propensione per la scrittura creativa che considero la più alta forma di scrittura (opinione personale, ovviamente). Forse però oltre che responsabili delle emozioni, i giornalisti dovrebbero essere responsabili delle verità che veicolano e del peso delle loro parole (a volte basta poco per dare un'idea distorta della verità). La prima frase del tuo commento mi ha fatto riflettere molto, grazie per aver condiviso i tuoi pensieri qui!
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