Oggi sono qui per presentarvi il settimo post di La
biblioteca dimenticata, rubrica fissa sul mio blog curata Davide
Rigonat, il blogger che
gestisce La casa della
nebbia.
Nel suo primo post ci ha parlato di Dafni
e Cloe di Longo Sofista, un importante romanzo greco, nel secondo
ci ha parlato dei libri di Andre Norton al confine tra fantasy e fantascienza.
Poi è stato il turno di due post su Giorgio
Saviane e i suoi libri, il secondo dei quali parlava della sua opera
Il
Papa. Dopo un post su Palomar
di Italo Calvino, il mese scorso ci ha fatto conoscere Lu
Xun, autore di La vera storia di Ah Q,
un racconto contenente un’ironica ma forte denuncia sociale.
Questo mese ci porta a conoscere
Giuseppe Marcotti e il suo
romanzo Il Conte Lucio.
Lo ringrazio e lascio subito a lui la parola…
Il Conte Lucio di
Giuseppe Marcotti
Eccoci arrivati a un’altra puntata della Biblioteca Dimenticata. Questa volta
voglio parlarvi di un romanzo storico
scritto da Giuseppe Marcotti:
Il
Conte Lucio.
Come sempre, spendiamo intanto due parole sull’autore: Giuseppe
Marcotti nacque a Campolongo
(UD) il 21 ottobre 1850 e
morì a Udine il 1° marzo 1922. Figlio di un
ricco proprietario terriero dedito alla viticoltura e alla bachicoltura,
Marcotti fu presto mandato a studiare presso il collegio dei barnabiti di Monza
(1859), da cui, dopo la licenza liceale, si spostò a Bologna e a Firenze per
studiare lettere e giurisprudenza. Decise di stabilirsi proprio a Firenze, dove concentrò la sua
attività nei decenni successivi. Rimasto vedovo nel 1906 (si era sposato con
Elena Arnaldi nel 1879), si ritirò nella
sua villa di Cuciliana, presso Pisa,
dove continuò comunque la sua attività letteraria. Tornato in Friuli nel 1917 a
seguito della disfatta di Caporetto, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale
decise si stabilirvisi. Morì a Udine
pochi anni dopo.
Romanziere e giornalista, lavorò per testate importanti come La Nazione, Il Fanfulla, La Stampa, Il Corriere della sera e Il Resto
del Carlino. Fu anche corrispondente per Le Figaro. Dal 1900 al 1906 fu anche segretario della Società Dante
Alighieri per la diffusione della lingua italiana fuori dal Regno
d’Italia. Nella sua veste di giornalista fu tra l’altro autore di resoconti di
guerra e di viaggio, specie nella regione dei Balcani e nei domini Turchi.
Della sua attività di romanziere vanno senz’altro ricordati i suoi romanzi storici, ambientati per
lo più nei territori da lui direttamente conosciuti (Friuli, Toscana, ecc.) e
basati sempre su un’accurata ricerca documentale e bibliografica. La sua meticolosa opera di ricostruzione degli usi
e dei costumi, il rigore documentario e l’originalità dei suoi romanzi
gli valsero pagine di vivo apprezzamento anche da parte di Benedetto Croce che,
nella sua Letteratura della Nuova Italia,
ne cita più d’uno come esempi pienamente riusciti di romanzo storico.
Tra i suoi romanzi e le sue opere a carattere
storico-giornalistico possiamo ricordare, tra gli altri, I Dragoni di Savoia
(1883), Donne e Monache (1884), La Giacobina
(1913), Le Spie (1922) e, ovviamente Il Conte Lucio.
Pubblicato a Milano nel 1882
da Treves, fu più volte oggetto di ripubblicazione per copia anastatica anche
in epoca recente (1974, 1981, 2000). Vi dico subito che quella che ho letto io (nell'immagine a lato) è l’edizione del 1974 della Tarantola Tavoschi Editore di Udine, copia
anastatica della III edizione della Treves di Milano del 1888.
Il romanzo tratta della vita e delle imprese del conte Lucio della Torre di
Valsassina, o, meglio, delle sue numerose
malefatte e scellerataggini.
Lucio, rampollo di una delle famiglie più importanti e potenti del Friuli (e
non solo), nasce nel 1695 da Sigismondo di Carlo della Torre e della nobile
veneziana Cecilia Mocenigo. Cresciuto
in un ambiente corrotto e violento (il nonno Carlo fu decapitato per i
suoi abusi e crimini; suo padre fu ucciso a tradimento dal suo stesso fratello;
i suoi cugini si distinsero per opera di sopraffazione e violenza, ecc.),
assieme a suo fratello minore Carlo si dimostrò ben presto all’altezza dei suoi
illustri predecessori. Rimasto orfano
di padre a quattro anni, manifestò ben presto segnali che non
lasciavano presagire nulla di buono. La madre decise così di spedire lui e il
fratello minore a Venezia, presso il collegio
dei gesuiti. Nonostante le speranze della madre, il contatto con alcune
cattive compagnie e la società corrotta di Venezia diedero nuovi stimoli
all’indole prepotente e lussuriosa del giovane, che ben presto si fece cacciare
dal collegio e cominciò una vita di
sperpero e di violenza. Neppure il matrimonio (combinato) con la contessa Eleonora Madrisio di San
Martino, donna non bella, ma
pia, docile e sottomessa e che gli diede ben quattro figli in quattro anni,
riuscì a cambiare l’indole del giovane che si dimostrò marito e padre terribile. Perenne cacciatore di donne e
avvezzo allo scandalo e per questo colpito più volte da decreti di bando da
parte della Repubblica Veneta, si circonderà ben presto di una folta banda di bravi armati fino
ai denti con cui si farà beffe della giustizia di San Marco e seminerà il
terrore nei territori del Friuli. Costretto infine a fuggire, riparerà nei
domini asburgici, dove però, regnando Carlo VI – estremo fautore del rigore
morale – non troverà gli appoggi sperati. Colpito anzi da decreto di confino a
Cormons (GO), riprenderà in breve tempo le sue male abitudini, con nuovi
scandali che lo porteranno a commissionare
persino l’assassinio della moglie. Scoperta però la sua responsabilità,
verrà infine incarcerato assieme ai suoi complici (in quell’occasione i conti
Strassoldo di Farra d’Isonzo) nella fortezza di Gradisca d’Isonzo e quindi giustiziato nel 1723.
Nel corso del racconto, il Marcotti riesce a dipingere in maniera esemplare gli usi e
i costumi dell’epoca in cui è ambientata la storia. La sua è infatti,
come lui stesso dichiara nell’epilogo, una ricerca
del vero. Illustrando le
motivazioni che lo hanno spinto a scrivere il romanzo, egli afferma infatti
che:
Mettere in scena coi libri gli uomini e i tempi andati secondo la sterica verità quale risulta dai documenti, riempiendone le lacune secondo una accurata verisimiglianza induttiva, a parer nostro non ha bisogno di giustificazioni: non è altro che uno studio del vero. Ma se si vuole l’intento morale, sentiamo che neppur questo ci manca.
E questa
operazione risulta pienamente riuscita. Egli riesce infatti a dipingere
compiutamente tutti gli aspetti
principali della vita del tempo: il cibo, le bevande, i vestiti, le
convenzioni, gli svaghi, le feste, persino i tipi di barche in uso a Venezia.
Tutto viene descritto con dovizia di
particolari ma sempre in maniera non
avulsa dal contesto. Marcotti ci descrive nei dettagli la corruzione e l’ipocrisia della
società veneta ormai in declino e di quella dei territori dell’impero
asburgico, anche e soprattutto a fronte di un profluvio di leggi, bandi e
divieti ufficiali tendenti alla moralità, al costume e al rispetto della
giustizia. Grazie alla minuziosa ricerca all’interno degli archivi storici, ci
viene dipinto un quadro preciso dello stato e del funzionamento degli apparati
di polizia e di giustizia del tempo, con tutte le difficoltà che c’erano per
far rispettare la legge, specie ai più ricchi, anche perché, come ci dice
Marcotti, ancora non era stabilito
che la legge fosse cosa uguale per tutti.
Dal punto di vista degli avvenimenti narrati, sebbene
l’autore abbia probabilmente romanzato alcune parti relative alle modalità
secondo i quali si sono svolti, essi sono assolutamente
fedeli alla verità documentata nel loro susseguirsi. In molti casi,
grazie ai verbali degli interrogatori, ai rapporti dei confidenti e agli altri documenti conservati negli archivi, gli è
stato invece possibile riportare
fedelmente anche i singoli discorsi, da cui ha potuto dedurre gli stati
d’animo, i pensieri, il carattere e le macchinazioni che i suoi personaggi
hanno messo in campo nella loro vita reale.
Dal punto di vista stilistico, se pur scritto in un italiano che non è quello di oggi
(cosa che a me, personalmente, non ha dato alcun fastidio, anzi…), la
narrazione scorre via veloce e piacevole. Il tono del romanzo cambia seguendo
gli eventi, così che, se all’inizio è, in un certo senso, quasi una commedia tragica, alla fine si
trasforma in tragedia vera e propria.
Nella prima parte del libro, infatti, pur nel mezzo di eventi terribili (come
l’assassinio del padre da parte dello zio), si narra infatti l’infanzia del
giovane Lucio e i suoi primi eccessi, legati per lo più all’amore carnale.
L’autore può allora sbizzarrirsi a descrivere la società veneta e la dilagante ipocrisia che vi dilaga sotto
l’apparenza della rettitudine e di come le numerose feste (e il
carnevale in primis) non fossero in
realtà che scuse per indulgere nei più abbietti dei vizi. Il Marcotti lo fa
però in maniera assai piacevole, ricorrendo spesso e volentieri alla satira e al senso dell’assurdo.
Per un esempio a caso, gustatevi questo discorso tra professori, teologi e
frati intorno al tema della liceità del bacio:
Man mano poi che la narrazione scivola verso il suo
epilogo, i ritmi si fanno più serrati e le
incursioni ironiche si fanno più rare, adeguando lo stile al precipitare degli
eventi (dove si raggiungono anche notevoli punte di truculenza) con
grande maestria.
Insomma, questo libro, oltre a disegnare un quadro assolutamente dettagliato della
vita nelle regioni del Veneto, del Friuli e della corte di Vienna nella prima
metà del 1700, racconta una storia che oggi potremmo definire quasi noir in maniera piacevole e
interessante. Anche se non è proprio facilissimo da trovare, lo consiglio
comunque a tutti, e specialmente a quelli che amano immergersi per un po’ di
tempo in un mondo dimenticato e per molti versi incredibile. Perché, come ci
dice il Marcotti alla fine della sua fatica:
Quando poi si rifletta che a quei tempi i principi e i grandi facevano la moda, non occorre altro a persuadere i lettori che la nostra istoria del conte Lucio è molto più veridica che sorprendente.
Anche oggi una
bella scoperta, direttamente dalla Biblioteca Dimenticata! Per fortuna che
Davide ci mette al corrente di queste piccole meraviglie nascoste! A nome mio e
dei lettori, ancora grazie!
Note: La foto usata come sfondo del banner è da attribuire a Luciano
Caputo (vedi CC nel link).
Hanno parlato di questo articolo:
- "Jacques il fatalista" di Denis Diderot - Prima parte
- "Jacques il fatalista" di Denis Diderot - Seconda parte
- "Il grande Meaulnes" di Alain Forunier: dall'adolescenza all'età adulta
- "Dersu Uzala" di Arsen'ev: l'esploratore e l'uomo della taiga
- "Casa di bambola" di Henrik Ibsen: drammi sociali nel teatro
- "Il paradiso perduto" di John Milton: poema epico con Satana come eroe
- "Centomila gavette di ghiaccio" di Giulio Bedeschi: il dovere del ricordo
- "L'immoralista" di André Gide: un sordo e indistinto bisogno di vivere
- "La figlia del Reverendo" di George Orwell: cambiare se stessi e non cambiare niente
- "Inferno" di Johan August Strindberg: tra narrativa e autobiografia
- "Amore" di Inoue Yasushi: viaggio nel mondo interiore dei personaggi
- "La biblioteca dimenticata - Un anno e mezzo di recensioni sparse" di Davide Rigonat - ebook gratuito
- "La biblioteca dimenticata - Due anni di recensioni sparse" di Davide Rigonat - ebook gratuito
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